In questi giorni, presso gli uffici di Ministri e Vice Ministri abbiamo assistito, in modo più o meno evidente o più o meno arrogante, all’assalto di soggetti etichettati come “rappresentanti di categoria”, ma che però suscitano il dubbio che la loro azione sia finalizzata ad alimentare interessi di gruppi ristretti, se non di specifiche aziende, collegate all’organizzazione che si rappresenta, sia direttamente che indirettamente.
A tutti questi vogliamo rammentare che, sebbene in Italia non esistano disposizioni normative che disciplinano l’attività di Lobbying, vige l’articolo 346-bis del Codice Penale il quale punisce tutti coloro che, nell’ambito delle relazioni con pubblici ufficiali e/o incaricati di pubblico servizio, sfruttando le relazioni, producono, o favoriscono, la creazione di particolari condizioni di vantaggio patrimoniale.
In particolare, la legge del 6 novembre 2012, n. 190, prevede il seguente reato: «Art. 346-bis. (Traffico di influenze illecite). – Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, ovvero per remunerarlo in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni”.
In pratica, l’attività di relazione istituzionale, consistente appunto nel trasferire agli attori politici le istanze imprenditoriali o di gruppi di essi, rischia di violare la legge nella misura in cui vi è presunzione sul fatto che le proposte presentate rappresentino o vengano interpretate come un vantaggio di qualche tipo a favore dei proponenti.
Bonis cupidum paucis.