Era già tutto scritto: l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea era secondo molti una scelta inevitabile  sin dalla nascita dell’Unione e dell’adesione della stessa Gran Bretagna. Da un lato, covavano sotto la cenere le braci di un contrasto culturale inespresso: alle radici di questo contrasto si colloca una cessione di sovranità che, nella sua storia, la Gran Bretagna non ha mai accettato. La contropartita spacciata più con slogan che con fatti concreti, da una Unione europea diventata sempre più Unione fra gruppi di interesse e potere economico, e sempre meno Unione di popoli, si è rivelata in tutta la sua pochezza nel momento in cui uno Stato ha avuto comunque il coraggio di dare la parola alla gente comune.

E il sogno d’Europa – anche se in molti si ostinano a pensare a un cambio di marcia, e a un colpo di reni che ripeschi sotto montagne di direttive sulla dimensione delle melanzane, lo spirito originale di un’Europa di pace e collaborazione – si sta frantumando in mille pezzi.

Le prime reazioni del presidente Junker, la cui storia non sembra appartenere ai rigori fiscali del mondo, diventato oggi il simbolo dell’Europa della tecnocrazia e dell’Euroburocrazia, hanno suonato come un lugubre segnale di allarme. E le conferme di un processo di disgregazione e di perdita di fiducia nell’Europa hanno trovato altrettanto drammatica e scontata conferma nella posizione assunta dalla Germania storicamente avvezza a perseguire le sue strade senza accettare consigli o aggiustamenti di rotta, sempre sino alla fine, fino al fallimento finale.

E il fallimento lo hanno già sperimentato interi settori di un’Europa e quindi anche di un’Italia che prima di essere soffocata da sistemi bancari facilmente rifinanziati (quando erano tedeschi) e condannati dall’intransigenza di Berlino al black out (quando appartengono ad altri Stati, Italia inclusa) ha ucciso metodicamente filiere strategiche, immolandole ora alle norme assurde di apertura del mercato, ora a sistemi sempre più complessi di adempimenti e di quadri normativi e fiscali …. ai quali l’Italia ha dato il suo valido contributo. Abbiamo assistito a politiche agricole dissennate, a strategie suicide (e anche in questo caso l’Italia ha primeggiato nella corsa a farsi male) su carbone e acciaio; e il Moloch dell’Unione europea è continuato a crescere  agendo come uno schiacciasassi sulle regioni più fragili e considerando popoli, famiglie, persone come una variabile indipendente nei grandi libri bianchi dei numeri, delle statistiche, delle norme costruite a tavolino senza valutarne preventivamente né l’efficacia, né le conseguenza.

L’autotrasporto italiano è stato uno dei primi ad essere immolato sull’altare dell’Europa degli slogan: ha pagato un prezzo altissimo, fra concorrenza sleale e cabotaggio, distacchi dei dipendenti dell’est ed eccessivi adempimenti, restrizioni e limitazioni. L’autotrasporto italiano potrebbe essere citato nei libri di storia come il simbolo di una visione manichea dell’Unione europea, che prima ha scelto le norme, poi le ha applicate a mercati che non erano in grado di sopportarle. La Ue si è comportata come un potere sovranazionale in mercati nazionali. Un errore? Forse no. Finalmente qualcuno in Europa si pone un nuovo interrogativo: ma queste scelte le ha volute qualcuno? Forse la decisione di trasformare i mercati più fragili in facili terreni di conquista dei superpoteri (guarda caso) tedeschi e francesi nel campo della logistica e non solo.

Diceva una vecchia battuta sui genovesi, e sulla loro avarizia: “E’ morto il signor Parodi” …. “Avrà avuto la sua convenienza”.

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